Abbiamo letto oggi nella liturgia un brano del discorso di Gesù nella stanza al piano superiore nella città di Gerusalemme, parole nella notte dell’ultima sua cena, le parole avevano il sapore di un addio, ardevano, come ardevano le lampade che mandavano luce suffusa nella grande sala.
Abbiamo letto anche brani del discorso di Stefano, il primo martire. Il più lungo dei discorsi che Luca raduna nel suo libro, gli Atti degli apostoli. Siamo in pieno giorno, lo hanno catturato e portato davanti al Sinedrio. Com’erano i suoi occhi mentre parlava? Vorrei ricordarvelo, perché si può nella vita anche parlare a lungo, ma con occhi spenti, di ghiaccio, in assenza di passione. Al contrario deve essere stata tanta e tale l’impressione del viso di Stefano mentre parlava da indurre Luca a scrivere:
”Tutti quelli che sedevano nel Sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo”.
Ci sembra di vederlo!
In lui parlava la fede e lo Spirito. Non per nulla Luca, nominando Stefano, di lui dice: “uomo pieno di fede e di Spirito Santo”. Stefano ripercorre nel discorso la storia del suo popolo, dagli inizi agli ultimi tempi. Colpisce questo sguardo a tutto campo, questo suo passare in rassegna la storia cogliendovi un segno. Come l’attraversasse un filo rosso. A fronte, mi dicevo, noi. Che spesso, troppo spesso, la leggiamo a frammenti, scollegati gli uni dagli altri, come tessere scomposte di un mosaico in frantumi. E per questo inclini a lamentare il non senso.
La storia per Stefano è percorsa da una passione, la passione di Dio per la salvezza e la felicità degli umani e della terra, una passione che attraversa i secoli, e non è confinabile a una presenza negli spazi religiosi del tempio e nemmeno in una osservanza solo formale di una legge. Dio chiama a un disegno grande.
La chiamata ha avuto sensibilmente un incipit nella voce risuonata in tempi antichi in terra di Mesopotamia per Abramo: “Esci dalla tua terra e dalla tua gente e vieni nella terra che io ti indicherò”. Il filo, il filo rosso della passione di Dio. Che ha assunto luminosità, intensità e pienezza nella vicenda di Gesù di Nazaret.
Ma a Stefano non sfugge un altro filo che attraversa e segna purtroppo, quasi fosse una costante, la storia, ed è l’infedeltà, la durezza di cuore di un popolo, la sua resistenza ai profeti, l’uccisone della profezia e dei profeti. Che si è consumata con l’uccisione in croce di Gesù e che ora sta consumandosi con l’uccisione di Stefano. Stefano che senza cedimenti, cosciente del prezzo delle sue parole, esclama: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri così anche voi. Quali dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata”.
Ebbene, riconosciamolo, la storia della resistenza allo Spirito è continuata nel tempo e tuttora continua.
Le parole di Stefano, parole ultime, le sue ultime parole – da conservare, oserei dire, con devozione – da un lato ci sono di conforto, ci spingono infatti al sottotraccia, cioè a
scoprire sottotraccia di Dio, un Dio impenitente nel suo camminare con noi. Gesù dirà:
“Io sono con voi sino alla fine dei tempi”. Ma dall’altro lato le parole di Stefano vengono a smascherare pagine e pagine anche della storia cristiana, in cui si è fatto scempio della profezia, della voce dei profeti, sino alla loro uccisione.
Succede anche oggi che si soffochino le voci scomode, magari non si uccidono i profeti fisicamente, ma li si uccide moralmente. Non possiamo passar sopra leggermente al monito di Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi, là dove scrive:
“Non spegnete lo Spiro Santo. Non disprezzate le profezie.
Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male” (1Ts 5,19-22).
Non spegnete lo Spirito Santo, non disprezzate le profezie, monito per noi.
E sfioriamo ora il discorso ultimo di Gesù. E’ rivolto ai suoi, non ha quindi l’incandescenza di quello di Stefano rivolto al Sinedrio. Ha il tono sommesso, affettuoso, commosso dell’amicizia: un amico se ne va. Un discorso testamento che, nella parte finale che oggi abbiamo letto, diventa una preghiera: “Così parlò Gesù. Poi, alzati gli occhi al cielo, disse. Padre è venuta l’ora, glorifica il tuo Figlio…”. Una preghiera. Quasi a significare che alla fine, sul punto di andarcene, non ci rimane che una preghiera, una preghiera al Padre per coloro che lasciamo perché siano custoditi.
Nel brano che oggi abbiamo letto ritorna più volte il verbo “glorificare”, su cui vorrei brevemente indugiare.
“Io ti ho glorificato sulla terra” dice Gesù “compiendo l’opera che mi hai dato da fare”. Come glorifichiamo Dio? Compiendo l’opera che ci ha dato da fare, quella che ci mette nelle mani ogni mattina. Dovremmo ricordarlo ogni volta che parliamo di “glorificare Dio”. “Noi ti adoriamo, ti glorifichiamo”: così preghiamo nella Messa. “Ti glorifichiamo”! Certo! Ma ricordiamo che Dio è glorificato, prende gloria, dalla vita luminosa dei suoi figli, che con integrità e onestà compiono le opere che il Padre ha dato loro da fare.
“E ora, Padre” aggiunge Gesù “glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”. Il Padre ha ascoltato la preghiera. Ha glorificato il suo Figlio risuscitandolo da morte, glorificherà anche noi, suoi figli, strappandoci alla morte. Sarebbe la sua disfatta come Padre, se così non fosse.
Chissà quante volte Gesù avrà pregato con le parole del salmo 16:
Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro.
Perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, non lascerai al tuo amico vedere la fossa.
Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena davanti al tu o volto,
dolcezza senza fine alla tua destra!” (9-11).
Ora il salmo conosce il compimento: Dio glorifica il suo figlio.
Angelo Casati
Quinta domenica di Pasqua – 29 aprile
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